Se è vero che l’amore della madre per il bimbo che è gia nel suo grembo si trasfonde nel me-desimo, arricchendolo di doni, ciò è avvenuto, in maniera particolare, per l’ultimo dei miei fi-gliuoli, per il mio Nicola.

Fu concepito ad Alessandria, dove mio marito prestava allora servizio; è per questo che lo chiamammo Nicola Alessandro.

Mio marito era perplesso davanti al mio desiderio di una nuova maternità, la quinta, ma io mi esaltavo al pensiero di un nuovo figlio, che, lo sentivo, sarebbe stato maschio e diverso dagli altri.

Mi viene in mente un episodio. Eravamo a Rocchetta Ligure a villeggiare ed io accusavo un lieve malessere, e, poiché le prime quattro gravidanze erano state eccezionali non avendomi mai dato alcun disturbo, rimasi, all’inizio di questa nuova gravidanza, assai dubbiosa: si trat-tava di disturbi gravidici, o era il mio fegato che andava a pezzi?

Una persona amica mi consigliò di consultare l’ostetrica del paese e si offrì di accompagnarmi lei stessa. L’ostetrica, che per un equivoco grossolano, aveva creduto che volessi abortire, si presentò con una siringa in mano. Come in un lampo capii la situazione ed ebbi una reazione fortissima. La sensazione traumatica del pericolo che aveva corso il mio bambino, mi accompagnò per molto tempo.

Così a Roma, il venticinque marzo del 1954, festa dell’Annunciazione e anniversario del mio matrimonio, dopo ben nove anni di distanza dalla nascita di Teresa, venne alla luce Nicola.

La sua nascita coincise con il trasferimento del padre da Alessandria a Frosinone, città ben più vicina a Roma, résidenza della famiglia.

La nostra gioia era completa, le bambine sembravano impazzite. Andavano su e giù per gli ot-to piani della casa, annunziando a tutti il lieto evento.

I primi sei mesi furono un pò duri per Nicola, perché non digeriva il mio latte; poi, andò un pò meglio, poiché feci ricorso all’allattamento misto.

Nicola cresceva bene; era un bambino dall’intelligenza vivace e fin dai primi anni mostrava carattere volitivo e personalità spiccata.

Amava gli animali; passava delle ore sul terrazzo ad osservare il via vai delle formiche; più grandicello, a tre o quattro anni, costringeva il padre a condurlo tutte le domeniche allo zoo, ed ogni volta nasceva nella sua testolina un interesse sempre nuovo per un animale diverso. Tornato a casa, mi stava sempre dietro, supplicandomi di comprargli o un leoncino o una scimmietta, persino un cobra.

Una volta il padre lo condusse con sé in una sua visita ad una scuola del Frusinate. Per la stra-da vide dei pulcini e gliene regalarono due.

Quei due pulcini divennero ben presto due belle galline ed erano di Nicola. Ma i condomini mal sopportavano la presenza di quelle innocue gallinelle e fummo costretti ad ammazzarle.

Ma come nasconderlo a Nicola? Ricorremmo ad uno stratagemma molto ingegnoso: le galline erano state mandate presso lo zio in Sicilia e là avrebbero atteso Nicola nel periodo delle va-canze. Ma quando, dopo qualche giorno, una di esse fu presentata a tavola per essere mangia-ta, non so chi dei fratelli sussurrò al bambino che quella era la sua gallina.

Ricordo, come se fosse ora, Nicola piantarsi davanti a me con le gambette divaricate e i pu-gnetti chiusi: «Mamma, se hai fatto questo, sei una madre crudele!».

In seguito volle che gli comprassimo un puledrino che pagammo allora 90.000 lire e tenevamo a Palazzo Adriano nei terreni del nonno. Appena egli lo vide, lo volle subito cavalcare, felice di sentirlo suo. Purtroppo lo zio fu poi costretto a venderlo perché un pò pazzo.

A proposito del suo amore per gli animali mi è caro aggiungere che, sfogliando fra le mie car-te, ho trovato una lettera del lontano 1958, con la quale uno dei miei figli scriveva dalla Sicilia al padre, rimasto a Roma, testualmente: «Nicola ha detto di riportare i suoi pulcini a Ripi per-ché possano stare insieme alla madre.

Aveva allora soltanto quattro anni!

L’amore per gli animali lo accompagnò per tutta la sua breve esistenza.

Quante fotografie e quante attenzioni per quella cucciolata di quattro gattini, che la madre, una gatta randagia, partorì sulla porta di casa ed alla quale demmo per qualche mese ospitalità!

E quale dolore egli provò, quando, per considerazioni egoistiche, mi rifiutai di tenere in casa una cagnetta, anch’essa randagia, che insieme alla moglie Antonella aveva trovato per strada e che dovette dar via. Quel dolore è oggi anche il mio.

Il suo interesse per gli animali era ispirato dall’amore per essi, dal suo desiderio di conoscen-za. Era abbonato alla rivista «Airone» che si occupa degli animali sotto tutti gli aspetti.

Già prossimo alla fine, nel breve periodo trascorso a casa tra un’operazione e l’altra, seguiva con vero godimento le trasmissioni alla TV sulla vita degli animali e me ne parlava con entu-siasmo.

Nel primo periodo della sua malattia accennai, così di volata, a Dio, unico Autore di quelle meraviglie, ma questo era, allora, un argomento tabù e non volli insistere.

A sei anni divenne boy scout nella sezione della Parrocchia di Cristo Re.

Mi parlava delle escursioni in aperta campagna, della vita in comune con i compagni, del suo interesse per tutto quello che per lui era nuovo. Mi spiegava i vari nodi che si potevano fare con la corda, come ci si orientava nei boschi.

Ho sottomano il profilo che ne fecero i dirigenti e che qui di seguito trascrivo: «Personalità simpatica e intelligente, è dotato di notevole prontezza intellettuale e di osservazione, ma è ancora troppo orgoglioso e irascibile.

Vorremmo una maggiore modestia e più comprensione verso gli altri. Il suo carattere è ben formato e forte, con buone doti di lealtà e di obiettività».

Aveva una bella voce calda e pastosa. Il suo amore per il canto si manifestò fin da bambino. Aveva appena quattro anni, quando, durante un pranzo, al quale partecipava il padre con altre autorità, si esibì cantando con i pugnetti chiusi la canzone di Modugno «E piove, piove sul nostro amor».

L’avevano messo sul tavolo tanto era piccino, e, quando finì di cantare, cominciò a girare tra i commensali chiedendo: Sono intonato?

Da studente entrò a far parte del coro che il maestro Potenza aveva organizzato al Liceo Giu-lio Cesare di Roma, affinando la sua bella voce di tenore.

Presto nacque in lui la passione per la musica. Suonava la chitarra a orecchio, e poiché capiva che era necessario conoscere le note musicali, non volendo gravare sul bilancio paterno per le lezioni, escogitò un sistema ingegnoso: dava lezione di chitarra a dei bambini e con il ricavato si pagava le sue lezioni di musica.

Cominciò a scrivere canzoni ch’egli musicava e cantava accompagnandosi con la chitarra.

A Torino con l’amico Albertazzi, autore di libri per bambini, presentò e cantò nelle scuole tre sue canzoni: Il circo; Alice e il grillo; Il bugiardo, la mosca e il re.

Per tale esibizione il Comune di Torino gli mandò poi un vaglia di L. 90.000 con molti lusin-ghieri apprezzamenti ed auguri.

Aveva voluto una tromba; Teresa, la sorella, gliene comprò una, ma egli non riuscì mai a suo-narla. Il suo grande sogno era il pianoforte a coda, sogno che non gli fu possibile realizzare per mancanza di spazio in casa.

Alla scuole elementari seguiva con molto interesse le lezio¬ni di applicazioni tecniche.

Aveva fatto un plastico in legno di una stazione ferrovia¬ria, così perfetto e bello, che il mae-stro non credette che fosse opera sua.

Fu l’offesa più grande che avesse potuto fargli; ri¬cordo che dovetti andare a scuola a convince-re il maestro che ne era veramente lui l’artefice; ma il bambino ne rimase così ferito, perché avevano dubitato della sua parola, che non lo dimenticò mai.

Fin da allora manifestò una naturale inclinazione per tutto ciò che era creativo, e questa sua particolare attitudine si svi¬luppò sempre di più, man mano che egli cresceva, tanto che diven-ne bravissimo nella lavorazione del legno, del ferro e del cuoio.

Aveva cinque o sei anni, quando all’Istituto Professionale «A. Diaz» di Roma, che aveva una sezione di moda, e che alla chiusura dell’anno scolastico, davanti alle autorità ministeriali e capitoline, dava un saggio dei lavori eseguiti, Nicola ricevette l’incarico di presentare sulla passerella i modelli infantili, inca¬rico che egli assolse con tanto garbo e sussiego, riscotendo ammirazione ed applausi. Di tale esibizione conservo una foto bellissima.

Finite le scuole elementari, frequentò la Scuola Media «Col di Lana» di Roma, studiando con buona volontà ed impe¬gno. Niente di particolare nel primo e nel secondo anno. Ri¬cordo solo che, durante le vacanze trascorse a Torre Pellice in provincia di Torino, (mio marito ne era al-lora Provveditore agli Studi) facemmo molte gite in montagna, e, poiché a Nicola era stato as-segnato dalla scuola il seguente compito: «Impressioni su episodi vissuti nel periodo estivo», egli incominciò a tratteg¬giare dei quadretti così spontanei, freschi e poetici che suscita¬rono l’ammirazione non solo nostra, ma soprattutto della sua professoressa di lettere, la quale, all’i-nizio del nuovo anno sco¬lastico, mi convocò per dirmi, commossa, che Nicola era stato per lei tana rivelazione, era stato come un bocciolo chiuso che ad un tratto si era aperto svelando una sensibilità eccezionale.

A quattordici anni Nicola seguì me e il padre a Torino.

Era il più piccolo, quello che maggiormente aveva bisogno di gui¬da, gli altri avevano già un lavoro, e, d’altra parte, era difficile spostare tutta la famiglia.

A Torino mal si ambientò, ed a scuola non legò con la mentalità dei suoi compagni settentrio-nali. Di quel periodo ricordo un episodio significativo della sua insofferenza.

Il padre, per distrarlo, gli aveva fatto affidare l’incarico di istitutore in un college di Londra durante i mesi estivi. Doveva sorvegliare i ragazzi che vi si recavano dall’Italia per imparare l’inglese, con profitto anche per lui. Era spesato di tutto con l’aggiunta di qualcosa per le sue piccole necessità. Vi rimase un mese soltanto.

Si era schierato dalla parte dei ragazzi, creando disordini, come dissero i dirigenti del college, o subiva le conseguenze dell’aver soffiato la ragazza al suo diretto supe¬riore che non glielo perdonò, come ci riferì poi Nicola? O en¬trambe le cose?

Cominciarono, intanto, i suoi primi dubbi sulla fede. Mi poneva dei perché, a cui, per timore di sbagliare; non osavo ri¬spondere; mi diceva che andava in Chiesa solo per farmi pia¬cere, ma che non sentiva niente. Avrebbe preferito essere più coerente e tornarvi solo quando avesse potuto dare una rispo¬sta ai suoi interrogativi. Così si allontanò definitivamente dalla Chiesa.

Ebbe, allora, inizio la mia angoscia, accompagnata da una preghiera costante, ininterrotta, da una implorazione fatta di lacrime e di rinunzie. Anche da me si allontanava poco alla volta, mi contestava, mi rifiutava.

Voleva ritornare a Roma e vivere nel suo ambiente, con i suoi fratelli e gli amici; non riu¬scimmo ad opporci: speravamo di far ritorno anche noi al più presto.

Mi preoccupai di trovargli a Roma un sacerdote che lo po¬tesse aiutare nella ricerca del suo Dio; mi indirizzarono ad un gesuita, teologo colto e, dicevano, sicura guida dei giovani.

Non l’avessi mai fatto; fu un incontro quanto mai negati¬vo. Il sacerdote lo accolse con questa domanda: «Come stai a donne?» e Nicola, arguto e ironico: «Io bene e lei, padre?» «Qui siamo tutti di sinistra». «Ah, sì? Piacere, io no» rispose Nicola e lo piantò in asso.

Me lo rimproverò sempre come se fosse stata mia la colpa.

Rividi quel sacerdote dopo molti anni, già prossimo alla fine per un tumore; parlammo a lun-go di problemi di fede; forse questo incontro rientrava nei progetti della misericordia divina.

A Roma si iscrisse al Liceo «Giulio Cesare»; si impegnava poco nello studio, ma, tutto som-mato, non ci dette in quel periodo eccessive preoccupazioni.

Lo vedevo una volta al mese come gli altri figliuoli e soltanto per pochi giorni, perché costret-ta a tornare a Torino per non lasciare solo, troppo a lungo, mio marito.

Ricordo di allora un episodio, assai importante, che ebbe riflessi sul mio Nicola.

A Torino ero andata un venerdì ad ascoltare al teatro Carignano, dove si tenevano i così detti «venerdì letterari» una conferenza «rivoluzionaria» del tanto discusso filosofo e teologo sale-siano marxista, padre Girardi.

Al termine della conferenza, durante un trattenimento organizzato in suo onore, fui spinta, non so per quali disegni divini, ad abbordarlo e lo tenni alle strette sul tema da lui trattato, io l’i-gnaro strumento, lui il dotto. Mi fu subito palese che avevo osato sfidare Satana e che la lotta tra me e lui era ora a viso scoperto; ma in quella circostanza fui io la più forte.

Il giorno appresso, tornando a Roma, trovai un. Nicola ribelle, che mi si pose davanti feren-domi nella fede con:.insinuazioni blasfeme nei riguardi di Gesù. Ricordo che ebbi una reazio-ne violenta e, senza mezzi termini, gli dissi che se non la smetteva, quella era la porta e poteva anche andarsene; insistette ancora, ma, l’indomani, mi confessò che aveva sentito in lui come una forza che lo spingeva a farmi del male. Cosa era successo?

Ma la risposta me la dette Gesù: «Non prendertela con Nicola, perché è Satana che ti attacca, perché hai interferito tra lui e padre Girardi».

Mi rivolsi allora a Gesù: «Se Satana, non potendomi attaccare direttamente mi colpisce nei miei figli, il suo gioco è fatto, ed io che devo fare?

E Gesù: «Non temere Dio, perché Egli è l’Amore, non temere satana perché la sua opera si ri-duce ad un colpo di coda, temi solo il peccato, unico e vero male che, allontanandoti da Dio, ti rimette tra le braccia di satana e l’anello si chiude».

Da allora i miei rapporti con Nicola furono condizionati dalla religione, non potevo parlarne, e, se, qualche volta ciò accadeva, magari indirettamente, me lo sentivo arrogante, demolitore, nemico. Egli non sapeva che tutto ciò mi stimolava ad una preghiera sempre più ardente, ad un’invocazione accorata, ad una supplica rivolta a Dio anche attraverso tante anime a lui care.

Concluso il triennio liceale, si iscrisse all’università alla Facoltà di Giurisprudenza.

Il primo anno passò come se non l’avesse fatto; era stato attratto da altri interessi. Il noto mu-sicista, maestro Potenza, lo aveva instradato ad un lavoro che lo entusiasmava: montare 1e co-lonne sonore dei film.

Mi risulta che le colonne sonore di alcuni film furono montate da Nicola personalmente.

lo, però, non vedevo di buon occhio questa attività che lo distraeva dallo studio, ma egli vi si impegnò con tutta l’anima, come aveva già fatto con il canto e con la musica.

Ben presto, tuttavia, tornò allo studio e con buoni risultati, frequentando contemporaneamente lo studio legale dell’avvocato Oliveti, nostro condomino, il quale ne era entusiasta.

Egli ebbe a dirmi che, quando mandava in Tribunale Nicola per delle pratiche, era sicuro che se la sarebbe cavata in qualsiasi difficoltà, con la sua vivace intelligenza e con il suo intuito eccezionalmente pronto.

Il padre dava a Nicola ogni mese settantamíla lire per le sue esigenze, (era già tanto per le sue possibilità) ma egli non pretendeva un soldo di più e, per soddisfare le sue necessità, chiedeva di eseguire, per modesti compensi, dei lavori in casa, adattandosi a fare il pittore, il tappezzie-re od altro.

Si mise, per conto suo, a lavorare il cuoio; faceva borse da donna, sacchi da viaggio, borselli per uomo, così belli e così originali da far rimanere addirittura meravigliati. Le sorelle si pre-stavano volentieri a piazzargli le borse presso le amiche. Pensò di presentare alla Fiera di Mi-lano un campionario dei suoi lavori che piacquero molto, tanto che una ditta giappone¬se gli commissionò duecentosessanta borsoni da viaggio. Egli, però, ne fece soltanto sei: aveva rag-giunto il suo scopo di riu¬scire anche in questo genere di lavoro, che abbandonò perché ormai privo di ogni interesse.

È da dire che quando un interesse nuovo sollecitava la sua fantasia, egli vi si buttava a capofit-to, dando ad esso anima e corpo, pronto ad accantonarlo se qualcosa d’altro lo incuriosi¬va e lo attirava. Ciò potrebbe far pensare ad un carattere inco¬stante e volubile, in realtà la molla che lo spingeva ad agire in tal modo era sempre la ricerca e l’affermazione del suo io.

C’è da dire che riusciva benissimo in tutto.

Era il cocco di Margherita, la nostra collaboratrice dome¬stica, che per 37 anni stette in casa nostra.

Non so se quell’amore possessivo e contorto abbia influito sul suo carattere, penso di no per-ché fin da bambino lo aveva inquadrato nella sua giusta luce, lo riteneva lesivo della sua li¬bertà e della sua personalità e lo rifiutava e così anche dopo in età matura, ma quella presenza negativa fu sicuramente deter¬minante nei rapporti tra me e mio figlio, una chiusura che a poco a poco si trasformò in rifiuto e così nei confronti degli al¬tri miei figli, con tante conseguenze dolorose. Riandare a tutti quegli anni passati, ma con la luce di oggi è per me un dolore im-menso; vorrei evitarlo anche perché non vorrei mancare di carità verso un’anima che ora in Purgatorio soffre per il male fatto a me, ma soprattutto ai miei figli, ma si¬curamente ho an-ch’io le mie colpe.

La sua vita fu certo una continua sfida a se stesso: riuscire e vincere.

E vinse anche la sua ultima battaglia, la più impe¬gnativa, la più terribile, mala vinse, perché vi si era preparato da sempre.

Iniziò a studiare con Lorenzo, giovane intelligente e volen¬teroso, ma soprattutto fervente cat-tolico, figlio di un alto fun¬zionario del Vaticano.

Vidi quell’amicizia come una benedizio¬ne; pensavo che il contatto con un giovane di così ele-vati prin¬cipi religiosi potesse influire positivamente sulla sua ricerca di Dio, che, nonostante l’apparenza, doveva esserci in lui, e ciò me lo faceva supporre quel suo continuo accostamen-to rifiuto che denotava come, nel suo animo, quel problema esistesse.

L’affermazione del suo io, che aveva caratterizzato tutta la sua vita, non la raggiunse nei con-fronti di Lorenzo e dello studio; erano le prime sconfitte al suo orgoglio, perché in ma¬terie preparate insieme, delle quali egli sentiva di avere una si¬cura padronanza, forse superiore a quella dell’amico, riporta¬va agli esami sempre qualche voto in meno di Lorenzo.

Non capiva che era il canale della grazia che era intasato; Lorenzo, con grande umiltà, mi e-sortava a pregare per lui ogni qual vol¬ta doveva sostenere un esame, Nicola, al contrario, deri-deva l’amico. Poco alla volta questo stato di cose agì negativamente su Nicola, che diventò scorbutico con Lorenzo, ed a volte sco¬stante, causando in me grande amarezza. Non era certo sotto l’influsso benefico del suo Angelo Custode.

Arrivò al suo ultimo esame, preparato con scrupolo, direi con rabbia, ed ecco la sua sfida a Dio: «Dì, mamma, al tuo Dio che preferisco essere bocciato piuttosto che dovergli qualco¬sa». Mentre Lorenzo: «Signora, preghi per me».

Sentii come un freddo percorrermi la schiena, pregai Gesù con tanto ardo¬re quel giorno, ma Nicola fu bocciato, mentre Lorenzo superò l’esame con trenta.

Dopo qualche giorno Gesù mi fece comprendere come non avesse potuto aiutare Nicola, per-ché nel suo cuore il rifiu¬to di Dio era stato totale.

Troncò con lo studio nonostante gli mancassero soltanto quattro esami per il conseguimento della laurea; diceva sem¬pre che avrebbe ripreso a studiare.

Il padre, preoccupato delle prospettive sempre più incerte per l’avvenire dei giovani, pensò di avviare Nicola ad un lavoro sicuro in banca e lo fece presentare ad un concorso indetto dall’I-stituto Bancario San Paolo di Torino che offriva larghe possibilità di riuscita.

Infatti riuscì bene ed entrò in banca.

Incontrò Antonella che si era presentata allo stesso con¬corso e, come lui, aveva vinto; durante il periodo di apprendi¬stato a Torino si innamorarono e decisero di sposare nel breve giro di un mese: Rimanemmo sorpresi e perplessi per così precipitosa deci¬sione.

Pensavamo che fosse ancora tanto giovane ed imprepa¬rato per un passo così importante ed impegnativo nella vita di ognuno. Ma l’amore li spronava a bruciare i tempi.

Per farmi contenta, e soltanto per questo, vennero nella determinazione di sposare in Chiesa. Mi raccontarono, poi, che a Torino erano andati alla ricerca di un sacerdote di «manica larga» perché la loro confessione non fosse che una con¬versazione, e ciò per non venir meno ai loro principi.

Fu, allora, che l’amore per mio figlio mi spronò ad una preghiera più costante e solo in essa trovavo tregua e ristoro.

E Gesù: «Il matrimonio era la sola strada per la quale poterti aiutare».

Ricordo una frase pronunciata dal sacerdote che celebrò il loro matrimonio, all’omelia: «Sento che molte anime sono unite a me per invocare aiuti e bene per questi sposi».

Ed era vero. Sì, era vero. II suo amore per Antonella ave¬va spazzato via dal suo animo ogni velleità di vita libera, ogni desiderio di facili avventure. Era prevalsa la sua indole costitu¬zionalmente onesta, e fu davvero un matrimonio felice.

Io e mio marito avremmo tanto desiderato un nipotino, fi¬glio di Nicola e di Antonella, ma non potevamo parlarne; era¬no entrambi irretiti nel loro egoistico amore e nei loro cuori non c’era posto per un figlio.

Adesso mi chiedo: questo di Nicola era davvero egoismo? Il perpetuare il proprio essere è davvero altruismo? Non so; solo nella prospettiva di Dio la prole è qualcosa di meraviglio¬so. Soltanto una volta gli sentii dire che se Antonella gli avesse

dato una bambina come Elena, la figlia di Filippo, allora sarebbe stato felice di diventare pa-dre. In realtà cosa c’era nel suo cuore? Teresa, la sorella, l’aveva definito: un vulcano di idee.

E tale era in realtà. Non faceva in tempo a pensare una cosa che già la realizzava, per passare subito ad altre in gestazione da tempo: l’auto, la casa al mare a Sabaudia, la piccola officina per i suoi lavori in ferro e in legno, le barche.

E quante barche ha cambiato in poco tempo! Era come se presentisse che doveva vivere in fretta, perché il tempo concessogli era assai breve.

Dei rapporti con Antonella io so ben poco; sarebbe meglio che fosse lei stessa a testimoniare. lo, la madre, vivevo ai margini della vita di mio figlio, al punto di conoscerlo poco. Sì, è vero, solo ora egli mi si rivela nei chiaroscuri del suo carattere, nelle sue doti potenziali, nella forza della sua volontà, del suo coraggio, di tutte le virtù che trovarono concretezza nella sua ultima battaglia, ma che erano già in fondo al suo essere come dono del Dio, suo creatore, che andava manifestando, giorno dopo giorno, fino alla vittoria finale.

In mancanza di un loro alloggio a Roma, dove entrambi lavoravano, si adattarono a vivere in una monocamera facente parte della nostra abitazione. Inizialmente io avrei desiderato che ci fossimo dati da fare per rendere libero un appartamento di nostra proprietà in Viale Tirreno, più grande e quindi più comodo per loro, ma Gesù mi suggerì: «Tienilo vicino a te»; ora ne capisco il perché.

La vicinanza di Nicola, se per me era spesso causa di dolore per il suo continuo rifiuto, al con-trario alimentava nel mio animo una incessante spinta a ricercare ed invocare l’aiuto di Dio per lui, per la sua felicità. Non pensavo più a me; nella rinuncia si purificava il mio amore. Ad un certo momento nella vita di Nicola sì inserì la figura di don Eugenio, sacerdote animato da in-tenso fervore di apostolato, che era diventato il mio direttore spirituale e che cominciò a fre-quentare la nostra famiglia.

Devo confessare che inizialmente le risposte ai vari quesiti, tutti critici, che Nicola gli poneva, non mi sembravano tanto ortodosse. Esse cozzavano con il mio pragmatismo chiuso e super-bo, che tanto fastidio dava al mio Nicola e nel quale egli vedeva una buona dose di presunzio-ne. Non capivo come fosse indispensabile, specialmente all’inizio di questi incontri, che si stabilisse tra lui e don Eugenio una corrente di simpatia e di fi¬ducia, che potesse influire sul suo animo in maniera positiva.

Senza accorgermene, Nicola, pur di demolire le mie convinzio¬ni, mi contrapponeva a don Eu-genio, sì che ogni suo detto di¬ventava legge per lui.

Solo oggi mi rendo conto come quell’amicizia sia stata de¬terminante nella sua lotta per la vit-toria finale. Ma il vero ed eterno regista è sempre Colui che vede nel nostro futuro e tutto pre-ordina e guida per il nostro bene.

Dicevo che dei suoi rapporti con la moglie posso dire ben poco; si amavano certo; egli era for-se un pò geloso e possessi¬vo ma era costituzionalmente fedele, retto e leale nei senti¬menti.

Non voleva che Antonella salisse da me perché temeva che le parlassi di religione.

Io tacevo ed aspettavo fiduciosa la mia ora, che era poi quella del Signore.

Un giorno Nicola mi lanciò una sfida che mai sarebbe, co¬sì come Teresa, tornato a Dio. Rac-colsi la sfida ed annotai in un foglio che ancora conservo e che porta la data del 2 gennaio 1972 la certezza che loro avrebbero fatto senz’altro ritorno alla fede.

Il mio amore per Nicola era un amore sofferente, era una spina: tutte le mie preghiere erano soprattutto per lui, e non mi limitavo alle mie, ma sollecitavo quelle di anime elette: le suore di clausura di San Colombano, le suore dorotee di Ro¬ma, suor Lucy di Lourdes, e tante tante altre che coinvolgevo nella mia ansia.

Gesù mi aveva promesso che ogni mio desiderio santo sarebbe stato esaudito, e i miei deside-ri «santi» abbracciavano tutti i miei figli, i nipoti, i fratelli, ma quello riguardante Nicola do-minava sugli altri.

Nicola cominciò a sentirsi male nel novembre del 1984;

colite, diceva il dott. Felici, nostro medico di famiglia, e per tale malattia egli lo curava, ma Nicola dimagriva a vista d’occhio. Pensavamo che fosse conseguenza del fatto che egli man-giava poco e male dato l’orario di lavoro in banca.

A mezza voce gli dicevo di farsi visitare dal prof. Dati, internista di indubbia esperienza e ca-pacità, ma egli, testardo, mi rispondeva di no, trovando mille scuse; in realtà non desiderava interferenze.

Finalmente il 16 febbraio del 1985 decise di consultare il prof. Dati e da quel momento ebbe inizio la sua e nostra tragedia.

Penso che all’inizio l’urto con la realtà l’abbiamo subito, in tutta la sua sconvolgente crudezza, noi familiari; ma egli quando cominciò a rendersi conto della gravità del suo male? Quando consapevolmente iniziò a bere il calice stracolmo di dolore?

Fin dal primo momento mostrò uno stoicismo e un coraggio eccezionali, non un lamento, non un rimprovero, un rispetto assoluto del dolore altrui, del lavoro degli infermieri, l’apprezza-mento per i medici, anche se sbagliavano; ad ogni contrarietà opponeva una mansuetudine ed una rassegnazione ammirevoli.

Nella prima fase della sua malattia, nelle lunghe notti bianche trascorse in ospedale, cosa ma-turava nel suo animo? A contatto del dolore, poco alla volta il suo io scompariva, cominciava a far confronti tra lui e l’amore e la generosità degli altri.

Agli amici di Antonella, Franca ed Aldo, che immancabilmente ogni giorno dalle undici alle dodici, l’ora di intervallo del loro lavoro, andavano a trovarlo portandogli sempre riviste co-stosissime e regali, con coraggio ed umiltà disse: «Sapete, debbo dirvi che io, nei vostri con-fronti, non avrei mai fatto quello che voi state facendo per me».

Suor Lucy mi aveva avvertito che il lavorio della Grazia nell’anima di Nicola era eccezionale, ma anche il suo calvario era eccezionale.

Don Eugenio andò a trovarlo tre volte: l’ultima volta volle confessarsi, ma io lo seppi più tar-di. Aveva pregato la moglie e don Eugenio di non dirmi niente.

Solo una volta disse: «Sai, mamma, avevo fatto un patto con Gesù, gli avevo promesso una cosa, ma Egli non ha accolto la mia offerta».

Al che scherzando gli dissi: «Nicola, per la miseria, vuoi che un Dio scenda a patti con te?». Non mi rispose. Passò del tempo, e, forse dopo il secondo intervento, mi disse:

«Mamma, dopo il rifiuto di Gesù di accettare la mia offerta, io non mi sono tirato indietro e gli ho promesso il massimo che potevo dare, più di quello non potevo, perché avrei leso i diritti di Antonella. A te non posso dire, perché non posso confessarmi con te.

Capisci, allora, cosa è stato per me, quando svegliatomi dal secondo intervento, mi sono tro-vato ancora con il sacchetto?».

Cercai di consolarlo, dicendogli che nuove tecniche gli avrebbero fatto superare quello sco-glio, ma in realtà i miei occhi bendati non mi permisero di sprofondare nell’abisso di dolore di quel cuore martoriato.

Pensavamo che non sapesse della estrema gravità del suo male ed, accanto al suo capezzale, fingevamo serenità, mentre egli, da parte sua, nascondeva il suo soffrire per non farci capire che conosceva la verità.

Vorrei ricordare ogni sua parola: «Mamma, io credevo in Dio, ma mi ribellavo alla tua insi-stenza, non fare lo stesso con Teresa».

«Nicò, Dio è potente». «Sì, mamma, Dio è potente!».

«Nicò, Dio è amore». «Sì, mamma, Dio è amore».

Una mattina mi fa: «Mamma, sai? C… è un anima bella, ma A… è un demonio, è lui che mi ha procurato la fistola in un’ansa del mio intestino». « Lo sapevo già, Nicola!».

Me ne aveva avvertito poco tempo prima Don Gernio … un sacerdote illuminato.

Un giorno, preoccupata per il decorso della malattia, e sopraffatta dal dolore per una situazio-ne di cui non si vedeva la via di uscita, tentai di chiedere ragguagli al professore che lo aveva operato o al suo aiuto, scavalcando il giovane medico che lo seguiva da vicino.

Questo fatto suonò per Nicola come mancanza di fiducia nei confronti del medico al quale e-gli si era affezionato. Ne fu addolorato e mi proibì di telefonare a chicchessia, perché non vo-leva che fosse messo in cattiva luce il medico che conside¬rava suo amico.

Si era affinata in lui la sensibilità verso i medici, gli infer¬mieri, ma soprattutto verso gli altri ammalati. Non pensava più a se stesso, alla sua sofferenza, ma solo agli altri.

Un giorno disse ad Antonella: alo dovrò rivoluzionare tut¬ta la mia vita, diventerò l’apostolo degli ospedali, per consolare gli infermi e sostenere gli infermieri nel loro duro lavoro, mi ac-compagnerai, vero?

Porteremo anche le siringhe che sempre mancano».

Un altro giorno: «Tu verrai in Chiesa con me, vero Anto¬nella?»

Un altro ancora: «Antonella, voglio farti un regalo, non una pelliccia, perché tu non la metti; un oggetto d’oro neppu¬re, perché tu hai fatto la promessa che non ne porterai più; voglio farti un regalo simbolico: una fiamma che possa ardere sempre, una fiamma d’amore».

A quali altezze cominciava a pervenire il mio Nicola?

Cosa passava nel suo animo nelle lunghe notti, inchiodato e inson¬ne, in quel letto di dolore, con cinque o sei tubicini che gli im¬pedivano qualsiasi movimento, con la febbre che sfiorava i quaranta gradi, in un bagno di sudore, con quel caldo maledet¬to che rendeva noi sani insoffe-renti e frustrati?

A quali rinunce era pervenuto, a quali atti di autentico eroismo? Sicuramente con Gesù e con la Madre Celeste erano stati allacciati lunghi e silenziosi colloqui che gli consentivano di na-scondere il suo im¬menso soffrire sotto un mesto sorriso, che facevano sì che la mattina poteva offrirsi, quasi con gioia, all’opera del medico per le medicazioni interne, dolorosissime, fatte senza aneste¬sia, che duravano a volte persino tre ore, mentre il suo povero corpo veniva aperto e ricucito come fosse un oggetto.

Era una vera vittima che si offriva come ostia tutte le mattine di tutti i giorni. Le infermiere lo chiamavano il santo, poiché non ave¬va mai un lamento, un gesto di impazienza, era diventato

mansueto e dolce, il suo volto aveva acquistato la trasparenza del Cristo.

Un giorno mi disse: «Mamma, tu e papà ai primi di ottobre dovete recarvi da Teresa a Caglia-ri, in aereo o con la nave non importa, le dovete parlare a lungo per eliminare malintesi ed in-comprensioni.

Dovevamo andare io e Antonella, ma ora dovete andare voi, promettimelo».

Come mai non mi sono chiesta, allora, né ho chiesto a lui perché non doveva andare più lui e perché proprio ai primi di ottobre? Intuiva già prossima la sua fine?

Mi diceva che col suo dolore stava riscattando noi tutti, anche i parenti e gli amici. Gli dico: anche Luigi? Mi risponde: «Anche Luigi?». Gli dico: «Non ti pare che anche la sua anima sia costata la morte di Gesù in Croce?». Non mi risponde.

Un giorno si rivolse a me con queste parole: «Per la miseria, mamma, quanti peccati tu hai!» lo gli risposi: «Nicò, proprio questo pensi di tua madre?».

Un altro giorno, mi trovavo ai piedi del suo letto, quando mi sono sentita apostrofare: «Mam-ma bella». Era un grido di amore che mai avevo udito né da lui, né dagli altri miei figli e che suonò strano alle mie orecchie tanto era lontano nei miei ricordi di mamma!

Cominciava a prendere consapevolezza della mia presenza di madre nella sua vita.

Ricordo che una sera, guardando il padre che sostava pensoso al suo capezzale, gli prese la mano, l’accostò alle sue labbra e la baciò con tenerezza.

Era un modo silenzioso per esprimergli tutta la sua riconoscenza, tutto il suo amore filiale. Questo episodio ha ispirato a mio marito dei versi veramente toccanti.

Intanto i giorni si succedevano ai giorni, il nostro spirito era teso come un tamburo; eravamo tutti protesi all’attuazione del disegno divino che credevamo dovesse culminare in un miracolo strepitoso: la sua guarigione; non ci accorgevamo che, al contrario, Nicola moriva. Erano le ore 11,15 del 28 agosto 1985.


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