Prima che incominciassi a star male, e, quando dico prima intendo da sempre, ero convinto, come del resto molti altri, di non poter star male; intendiamoci, non che non fossi mai stato malato, anzi spesso ero affetto da gastrite e mal di testa, ma risolvevo sempre questi piccoli mali, nella convinzione che dentro di me ci fosse una specie di forza capace di superarli senza aiuti esterni.
Per i grandi mali, invece, e per quelli che richiedevano interventi chirurgici, la mia tranquillità riposava su di una sorta di convinzione che mi portava a considerare che, se fino ad allora non mi era mai successo nulla, non vi era motivo per supporre che potesse succedermi dopo una specie di vaccino contro i grandi mali .
Avevo, invece, conosciuto la morte: un mio compagno di ginnasio, annegato in piscina. Mi ricordo di avergli parlato del più e del meno la mattina; ricordo ancora la disperazione della sua ragazza, che quel giorno, per un banale litigio, non era voluta uscire con lui, convincendolo ad andare in piscina.
Da allora ho accettato la morte come prezzo da pagare per quella supposta invulnerabilità alle malattie ed, ancora oggi, sono pronto ad accettarla senza paura.
E così, appena ho cominciato a star poco bene con la pancia, ho subito pensato: «Ci siamo, hai straviziato molto in questi ultimi anni, bevendo, mangiando, e adesso paghi; basta che rinunzi a tutto drasticamente e tra quindici giorni sei di nuovo in forma».
Era il 15 novembre. E così ho fatto; niente più alcolici, né vino, niente cibi fritti e per il resto poco di tutto; era forse il caso di andare dal medico? E così feci.
Il mio medico curante mi conosce da circa vent’anni, sa tutto di me, delle possibili cause dei miei mali; questo è sicuramente un bene, perché nelle diagnosi va a colpo sicuro; gli era sembrato che si trattasse di colite e per colite me la curò.
I fatti dimostrarono che non era così; le pillole che mi diede, io lo sapevo, non sarebbero servite a niente, se non ad aiutare quella forza interna a risolvere i problemi da solo; nel frattempo continuavo a stare a regime alimentare, ma stavo sempre male; anche a Natale e per tutte le feste rimasi a dieta, ma non notavo alcun miglioramento.
Era giunto il momento di abbandonare la comoda sicurezza del medico di famiglia per ricorrere al Professore, altra conoscenza della nostra famiglia, ma sistematicamente ci si rivolgeva il meno possibile a lui, perché ha fama di diagnosticare esattamente il male, ma le sue cure sono sempre chirurgiche.
La visita durò tre quarti d’ora, mi ispezionò in maniera completa, fino a quando, in ultimo, palpando l’addome più a fondo disse: «Qui è il sigma, qui bisogna vederci chiaro», e prescrisse una sola analisi per ispezionare quel punto.
La radiografia all’intestino si dimostrò abbastanza fastidiosa a causa dell’introduzione del bario ed anche per la preparazione, perché l’intestino doveva presentarsi svuotato.
Sorse, subito, in me una tenacia alla sopportazione del dolore, come se già sapessi che quella prova non sarebbe stata né l’unica, né la più dolorosa.
La stessa tenacia che mi faceva dire che avevo una soglia del dolore molto alta, tanto da sopportare anche la bruciatura di una sigaretta in un braccio, come dimostrai anni prima una sera al mare.
Il radiologo, mal celando una certa apprensione, mi consigliò di tornare dal professore immediatamente. A quel punto dissi a mia moglie: «Antonella, vedrai che questa volta mi tagliano». Antonella non disse nulla e mi abbracciò visibilmente scossa.
Lo stato d’animo di mia moglie è stato per me il problema più grosso; io ho sempre cercato di proteggerla, chi l’avrebbe fatto nel futuro più prossimo?
In realtà Antonella se la sarebbe cavata anche senza di me e l’avrebbe dimostrato egregiamente nei momenti più cruciali di tutta la vicenda.
Ormai non vi erano dubbi; dovevo operarmi; me lo disse anche il Professore universitario, chirurgo di fama mondiale, specializzato in trapianti di organi.
C’era da essere intimoriti al solo suo cospetto, invece la sua bontà, i suoi modi affabili mi misero subito a mio agio, ed egli mi affidò al suo assistente che mi avrebbe poi seguito per tutta la mia degenza ed oltre. Per prima cosa dovetti fare una rettoscopia, abbastanza dolorosa che mi provocò una abbondante emorragia.
Diagnosticarono un polipo al sigma e confermarono la necessità dell’intervento chirurgico.
Prima del ricovero dovevo sottopormi alla Tac, per la ricerca dei tumori.
In questo frangente il morale dei miei genitori precipitò a valori molto bassi; crebbe il loro nervosismo, del quale a stento riuscii a non subire il contagio.
Per fortuna la Tac risultò negativa; così, finalmente, il 26 febbraio fui ricoverato.
Il giorno del ricovero ero visibilmente contrariato e non facevo niente per non nasconderlo. Quasi subito vennero due studenti di medicina, incaricati di redigere delle schede sulle mie condizioni di salute, precedenti ed attuali, della mia famiglia e così via; qui ne ho sentite delle belle, unica fra tutte: volevano sapere per quanti anni mia madre mi aveva allattato; mi sono rifiutato di rispondere, con riflessioni amare sulla futura classe medica.
La prima notte fu sicuramente la più difficile da passare; non chiusi occhio sino al mattino, poi alle sei la sveglia, la prima di una lunga serie: il termometro, la prima sistemazione del letto e, per quelli che erano stati operati da poco, il cambio dei vari contenitori delle urine ecc. ecc.
Non so se vi siano delle particolari ragioni mediche per una levataccia alle sei; certo è che è abbastanza traumatizzante svegliarsi a quell’ora per fare delle cose che potrebbero essere rimandate di un’ora.
La mattinata, generalmente, prosegue con la colazione alle otto; subito dopo, la cosiddetta terapia, che in pratica si riduce alle pillole; il cambio delle lenzuola avviene di rado, le federe, se uno le vuole pulite, deve portarsele da casa; occorre comprare anche le siringhe.
Dopo la colazione c’è la visita dei medici, poi il pranzo alle 12 (mai assaggiato niente), alle quattro la visita dei parenti, alle cinque di nuovo terapia, seguita a ruota dalla cena, (come sopra), e infine alle 11 di nuovo la terapia. Come si vede la giornata è cadenzata da queste operazioni e tutta la vita in ospedale è condizionata da esse; non hai altro da fare se non aspettare; se qualcuna di queste ritarda, c’è sempre una certa apprensione.
Il mio primo contatto con quelli che io definisco grandi malati l’ho avuto con Renato.
Egli era un reatino, ricoverato in ospedale da 11 mesi, (dico 11), in attesa di un rene compatibile con il suo organismo per un trapianto.
Da 25 anni era anche affetto da diabete e necessitava quindi delle somministrazioni di insulina. Ma non è tutto, il diabete, oltre ad avergli danneggiato i reni (doveva infatti fare dialisi a giorni alterni), l’aveva reso quasi cieco.
Nonostante tutto, non ho mai conosciuto un uomo con tanta voglia di vivere, buono, educato, che riusciva a confortare gli altri malati, che non era di peso a nessuno.
Teneva sotto controllo il diabete mediante un mini computer che, opportunamente programmato da lui stesso, immetteva attraverso un ago infilato nell’organismo le giuste quantità di insulina. Solo una volta l’ho visto demoralizzato, ma solo per un attimo.
Un pomeriggio gli avevano detto di stare pronto, perché forse c’era un rene per lui; a tarda sera, invece, seppe che quel rene per lui non era adatto. Non so descrivere la sua delusione, una possibilità sfumata, forse altri mesi di attesa e di ospedale con lo spettro della morte sempre in agguato dietro la porta.
Si riprese subito, però, e per alcuni giorni continuò come prima; poi finalmente fu la volta buona. La moglie era visibilmente affranta, pensava sicuramente all’enorme rischio che il marito era di lì a correre.
Egli, invece, mi è parso che sorridesse commosso di gioia per quel regalo che andava a ricevere. Anch’egli, certo pensava al rischio, ma temeva di perdere ancora una volta il treno e si affrettò a piedi verso la sala operatoria.
Come era prevedibile, Renato fu dimesso con un sorprendente recupero.
Alberto, invece non ha riscosso certo la mia stima, ne parlo per contrapporlo a Renato. Egli aveva subito il trapianto del rene e dopo l’operazione aveva avuto il rigetto, con il conseguente intervento di rimozione.
Una gravissima infezione l’aveva tenuto in prognosi riservata per parecchio tempo; era stato sottoposto in tutto a cinque interventi e rimase in ospedale cinque mesi.
Non riscosse le mie simpatie anche se indubbiamente stava soffrendo ed avrebbe ancora sofferto, ma Alberto era il tipico uomo arricchito, titolare di una piccola azienda a conduzione familiare, che non riusciva a miglior le sue origini popolarissime: trattava tutti male, con espressioni abbastanza volgari e pesanti ed, a volte, anche offensive soprattutto nei confronti degli infermieri, i quali, in verità, noi meritavano affatto.
Anche i medici ebbero la loro dose di insulti.
Alberto non aveva appreso niente dalla sua malattia, non aveva fatto tesoro delle pause di riflessione, tra una dialisi e l’altra, prima del ricovero e non riusciva a capire la sua situazione neanche durante il ricovero, dove il suo denaro non poteva aiutarlo.
I sette giorni, in attesa dell’intervento, passavano né fretta, né lentamente, passavano, tra un esame e l’altro, tutti in preparazione dell’intervento. Cominciai a tessere la mia rete di amicizie tra gli infermieri sia con qualche regalia, ma soprattutto con l’educazione, la gentilezza e con la tattica di disturbare il meno possibile e sempre senza pretese; i frutti di questa politica li raccolsi tutti dopo l’intervento, anche da parte di chi inizialmente si era dimostrato con me alquanto scostante.
Devo spezzare una lancia a favore di questa classe di lavoratori. Io non ho conosciuto infermieri di altri ospedali, né di altri reparti, non so se quello che si dice e si scrive di loro sia tutto vero: della loro inefficiente preparazione, della loro superficialità ed anche del loro menefreghismo: tutte cose sono state riscontrate se mai altrove.
I miei amici infermieri non solo erano professionalmente qualificati, ma avevano una notevole carica umana nei confronti di tutti: degli infermieri mi riservo di parlare ancora singolarmente.
Con queste posizioni conquistate, mi avviavo verso il giorno dell’intervento.
Nel frattempo, per sopravvivere nell’attesa, non dico fisicamente (come ho già spiegato, sopporto bene il dolore), ma sopratutto psicologicamente, decisi di usare il mio tempo libero per una sorta di introspezione che speravo mi avrebbe portato ad una fortificazione dello spirito.
Così cominciai a sentirmi più rilassato, senza impegnarmi in discorsi con gente dagli interessi a volte diametralmente opposti ai miei, senza pensare al lavoro in banca che a volte mi creava angoscia, per quello spirito di competizione che bisogna avere se si vuole far carriera.
lo non dovevo più sentirmi in colpa, se una mattina non potevo recarmi al lavoro.
Caratteristica comune a tutti i malati in attesa dell’intervento è il desiderio di farsi operare al più presto; anche io scalpitavo per farmi operare.
L’intervento per me era fissato per venerdì 8 marzo. Pensavo che la notte di giovedì l’avrei trascorsa sveglio ed alquanto preoccupato; invece l’ho passata letteralmente seduto sul water: mi avevano dato delle potentissime purghe per svuotare l’intestino; mi avevano anche messo la fleboclisi, e quindi correvo lungo il corridoio verso il bagno trascinando l’asta della flebo. La scena, tutto sommato, era buffa, anche se nel cuore della notte mi è venuto anche un mezzo collasso; per fortuna ero amorevolmente assistito da mia moglie.
Finalmente la mattina dopo, alle 9,45, entrai in sala operatoria con ancora sulle labbra il bacio di Antonella: mi misero sul tavolo operatorio…
«Nicola, mi senti?» mi chiese qualcuno. «È tutto finito, svegliati».
Diedi forse qualche segno, perché chi mi parlava si reputò soddisfatto e non insistette più.
Erano già le 17,15 quando mi riportarono nel mio letto.
Il primo volto che vidi fu quello di Antonella, poi quello di Maria, mia sorella, e infine quello di Franca, una nostra amica, che non immaginavo avesse atteso l’esito dell’intervento. Avevo, come mi dissero poi, un volto rilassato, sereno; mi permisi, anche di lanciare un’occhiata ironica a mia sorella, che mi chiedeva come stavo.
La prima notte di assistenza me la fece mia cugina Maria Tecla, studentessa in medicina; ogni tanto mi tastava il polso, e, ad intervalli, mi bagnava le labbra. lo mi mantenevo rigorosamente fermo per evitare qualsiasi dolore.
Ero letteralmente intubato, avevo il catetere, un cannello nel naso che scendeva fino allo stomaco, due tubi di drenaggio al fianco sinistro. Così conciato, passai quattro giorni senza ricordarmi di nulla; ero tutto intento ad un recupero generale.
Mi accorsi subito, però, che la sutura non era dove pensavo sarebbe dovuta essere; si dilungava dallo sterno fino all’inguine dopo aver aggirato l’ombelico (meno male che non hanno proseguito diritto, sono affezionato al mio ombelico); ma, non basta, poco sotto lo sterno sentivo la presenza di una bacchetta, ma nessuno me ne spiegava lo scopo, me lo spiegarono solo dopo tre giorni, quando, tolta la fasciatura, potei rendermene conto con i miei occhi: per evitare che l’intestino, appena tagliato, si potesse infettare, mi avevano praticato una colestomia, cioè mi avevano tirato fuori una parte di intestino che, opportunamente inciso, faceva fuoriuscire le feci che venivano raccolte in un sacchetto di plastica incollato alla pelle. Il ripristino delle funzioni normali sarebbe avvenuto dopo un mese circa mediante un altro intervento.
Ero contrariato; i tempi si allungavano oltre ogni previsione con tutta una serie di fastidi che non avevo considerato; pensavo che, una volta operato, non ci sarebbero stati altri problemi e che, avendo un fisico robusto, sarei uscito dall’ospedale dopo pochi giorni.
Facevo un’altra considerazione: ero stato preso alla sprovvista, non ero stato avvertito anticipatamente. Ciò mi dava una sorta d’inquietudine e di rabbia; per le strutture sanitarie e per i singoli medici, siamo spesso dei numeri, il numero del letto.
Per loro è meglio che per certe cose il soggetto (dell’esperimento) resti il più possibile all’oscuro, per evitare domande inopportune, discussioni fastidiose per l’uomo di scienza. Forse c’è ancora un residuo radicato di quello che furono, per millenni, stregoni, maghi, cerusici, guaritori, che credevano di essere gli unici depositari di scienze più o meno occulte, che era necessario custodire gelosamente per non perdere quella parte di privilegi che l’ignoranza altrui garantiva.
Siamo pronti a denunciare un meccanico che, serrando poco un bullone, provoca danni alla nostra vettura, ma raramente facciamo la stessa cosa per i medici, eppure questi sono i professionisti che non dovrebbero sbagliare con degli onorari da capogiro, invece godono di una sorta d’immunità quasi assoluta.
Forse anche noi siamo vittime di quell’antico retaggio?
Comunque sia, accettai questa novità senza troppi problemi.
Il quarto giorno, dopo l’intervento, mi tolsero il catetere ed il tubo al naso; respiravo meglio ed ero veramente contento; questa relativa calma durò solo poche ore; verso le dieci mi venne una colica renale, (per la precisione il rene destro); ne avevo avute altre due in dicembre e quindi ne conoscevo bene i sintomi; questa fu ovviamente la più dolorosa; avevo mandato via i miei, perché la mattina, come ho detto, mi sentivo decisamente meglio; anche i medici, che avevo fatto chiamare, non si vedevano, mi sentivo perso ed impotente. Poi inaspettata arrivò Franca; mai come quella mattina fui contento di vederla; le chiesi di avvertire i miei a casa, i quali si precipitarono in ospedale, ma solo dopo un pò ottennero un analgesico; i giovani medici di guardia non volevano assumersi la responsabilità di una tale decisione. Superai anche questa prova; cominciavo ad essere quasi orgoglioso di questi contrattempi, tutta questa storia stava superando i limiti della banalità e dopo me ne sarei vantato.
Nei giorni successivi cominciai ad alzarmi ed a camminare, sempre convinto di poter tornare a casa presto dopo il secondo intervento.
Il 17 marzo, di domenica, fu ricoverato Arnaldo.
Arnaldo era un dipendente dello stesso Policlinico, 52 anni; non mi era istintivamente simpatico, forse perché, sentendosi di casa, non voleva sottostare a tutte quelle piccole regole che tutti gli altri sopportavano.
Il giorno dopo l’operarono a causa di una grande ciste: gli tolsero un rene, e come al solito, a lui non dissero nulla; dopo due giorni gli tolsero i vari cannelli e lo fecero sedere; sembrava tutto regolare, quando Arnaldo cominciò a star male; respirava a fatica, sicuramente a causa del fumo, (tutti nella sua famiglia erano dei grandi fumatori).
Cominciarono, subito, ad accorrere i medici, dapprima i soliti che vedevamo sempre, poi gli specialisti: anestesisti, cardiologo; altri, che non seppi qualificare, portarono macchine per risucchiare dai polmoni; un’altra, sofisticatissima, che controllava il cuore; intanto l’ossigeno, che gli stavano dando, non era che un palliativo; vedevo i medici visibilmente preoccupati; io, che ero di fronte, potevo scorgere il viso di Arnaldo non preoccupato, non perché non ce ne fosse motivo, ma perché era tutto concentrato nel tentativo di respirare.
Io ero scosso, consideravo che in certi momenti siamo veramente soli, come davanti alla morte. Verso sera lo portarono in camera di rianimazione, lì perse anche la conoscenza; poi, dopo 5 giorni, lo riportarono in camera provatissimo, ma la moglie di Arnaldo, la signora Ada, passava i giorni e le notti accanto al marito con una dedizione, sacrificio e resistenza eccezionali. La signora Ada si confidava spesso con Antonella.
Sapemmo che la figlia Letizia, una bella ragazza di 30 anni, madre di una bambina di 8 anni, un anno prima aveva avuto il trapianto di pancreas eseguito dalla stessa équipe medica che aveva operato Arnaldo e me.
Letizia, a causa delle preoccupazioni per il padre, purtroppo perse l’uso del pancreas e riprese con il vecchio sistema dell’insulina con punte altissime di glicemia.
Immaginate l’angoscia di questa ragazza, giovane madre, che sperava di aver risolto i problemi di salute con un intervento dei più difficili per le poche probabilità di attecchimento del pancreas, che, poi, per la sua apprensione e l’affetto per il padre, si risolse nel nulla.
Circa l’amore e la dedizione per gli altri, voglio ricordare.anche un altro malato: Pietro, muratore calabrese, che aveva dato un rene alla moglie.
Mi parve un gesto talmente assoluto e stento ancora a capirlo.
Il donatore ha una psicologia del tutto particolare; pur non essendo malato, deve ragionare come se lo fosse; deve subire un intervento non dovuto con la prospettiva di diventare un soggetto così detto a rischio.
Pietro mi faceva a volte sorridere, perché, nonostante tutto, aveva paura delle iniezioni. Non si vantava mai del suo gesto, diceva solo: «speriamo che serva», ed invece, purtroppo, fu inutile, me lo disse egli stesso tempo dopo, piangendo.
Il 25 marzo, giorno del mio compleanno, ero prevedibilmente nero; tra il serio e il faceto, che il primo che mi avesse augurato: cento di questi giorni, l’avrei mandato a quel paese; ed essi, non sapendo come comportarsi, si astennero da quell’augurio.
Quel giorno, infatti, ebbe inizio un nuovo capitolo della mia storia.
La mattina avevo accusato dei forti bruciori alle vie urinarie; ne avevo subito messo al corrente i medici, i quali, con molta naturalezza, mi dissero che si trattava del tutore (sottile tubicino di plastica infilato nell’uretere tra il rene sinistro e la vescica), lasciatomi apposta durante l’intervento, perché (dicevano loro), si erano accorti che l’uretere era infiammato; l’indomani me lo avrebbero tolto.
Due giorni dopo, infatti, mi portarono in medicheria e lì un urologo, mediante cistoscopia, mi prelevò dalla vescica questo tutore.
Salutandomi mi disse: «Meno male che siamo riusciti a prenderlo altrimenti avremmo dovuto operare».
La cosa raccontata così non sembra nulla, ma solo chi l’ha provata sa cosa questo voglia dire e quanto sia dolorosa; in una pausa all’urologo che aveva ancora i ferri in mano chiesi se egli avesse mai subito un simile trattamento e, quindi, se ne conoscesse il dolore.
Mi rispose di no, forse un pò imbarazzato. Tornai al mio letto; non mangiai neanche; poi finalmente arrivò Antonella e mi sentii subito meglio.
L’indomani doveva essere una giornata decisiva (ancora lo credevo); dovevano verificare mediante una lastra, con immissione di bario, se l’intestino si fosse già richiuso; ero già disteso sotto i raggi, mi avevano appena immesso il bario e già dal tubo di drenaggio usciva un liquido biancastro; non c’era bisogno di essere medici per capire che quello era bario uscito dall’intestino non ancora richiuso.
Non attesi neanche la risposta del radiologo, mi ero già rassegnato ad aspettare ancora prima di tornare a casa; trovai tracce di bario anche nelle urine; pensai che dipendesse da un processo di assimilazione dell’intestino e non ci feci caso.
Di tanto in tanto, il sacco di drenaggio, che fino a quel giorno era rimasto vuoto, cominciava a riempirsi di liquido; erano segni decisamente preoccupanti; non sapevo però di cosa si trattasse, che liquido fosse.
A questa novità io avevo reagito con un certo ottimismo, non preoccupandomi troppo, del resto anche i medici non si sbottonavano, minimizzavano.
Un pomeriggio, durante l’orario di visita, venne un dottorino che, pur essendo molto giovane, prometteva bene, per inserirmi un catetere; come spiegazione inventò una «balla» per nascondere le vere ragioni; entrò in camera con tutto il necessario, i visitatori ovviamente uscirono, ma un’amica, Donatella, che era presente, si impressionò e quasi svenne; e per assurdo, dopo, mi toccò confortarla tra l’ilarità degli altri presenti.
Riguardo al liquido mia moglie insisteva nel dire che si trattava di urina, ma non sosteneva la sua tesi con argomentazioni valide ottenendo l’unico risultato di innervosirmi e di angosciarmi.